giovedì 2 febbraio 2012

LA BORA, IL VENTO CHE RUBA L'ANIMA

C' è il vento e c' è la bora. Il vento, dice Stendhal, è quando «si è costantemente occupati a tenere stretto il cappello». Bora è quando «si ha paura di rompersi un braccio». La bora desertifica strade, affonda barche, scoperchia case, rovescia treni, sradica alberi, sbriciola tegole e staccionate, trasforma i moli in banchisa e gli alberi in foreste di cristallo, prende di petto gli aerei e li fa atterrare da fermi come aquiloni. Quand' è gentile, si limita a rubare cappelli, a far volare ombrelli, alzare gonne e gonfiare pastrani. «La bora - scriveva Scipio Slataper - è il tuo respiro, fratello gigante». Essere triestini non è solo un' origine geografica. è una categoria dello spirito. I triestini sono una razza inquieta di esploratori di bettole e grandi spazi aperti. In entrambe le direzioni, la bora dà loro la spinta determinante, li obbliga a trovar rifugio al chiuso di una taverna piena di fumo, ma li invita anche al viaggio, ripulisce l' orizzonte e lo propone come meta. «Quando vidi il mare pulirsi - racconta Scipio Slataper - e sentii fremere intorno a me l' aria, giungendomi alla pelle un piacevole frizzo e alle nari un fresco e leggero odore di sassi e di pini, allora capii cos' era. Nasceva la bora». è un vento solido, quasi liquido. è alta poche decine di metri. Si forma nel vallone fra Trieste e Lubiana,si comprime come un proiettile nelle lande sotto il monte Nevoso, poi se ti becca son dolori. Devi aggrapparti all' erba secca per non volare come un vecchio barattolo. Talvolta comincia con un ululo cupo e la pioggia, poi il fischio diventa una nota continua, sempre più bassa. Allora la temperatura scende, impercettibile, ma regolare. I friulani ne hanno paura, la chiamano «Vent sclàf», vento slavo, facendo del vento una metafora demografica, simbolo della massa nomade e bellicosa che preme sulle pianure padane e dintorni. Il poeta triestino Umberto Saba amò la bora scura, quella che spacca tutto col cielo nero. Odiò invece quella solare, artica. «Conosco la bora, chiara e scura, la detesto quando scende fuori misura con cielo sereno. Amo l' altra che ha una buia violenza cattiva». E aggiunse: «Io devo recuperare la bora / oppure qui affondare / nel mio paese natale / nella mia triste Trieste / nella mia Trieste triste / che amare è impossibile / e odiare anche». E Tomizza, il poeta istriano di «Materada». La bora, scrisse, «porta ognuno a ritrovare una parte di se stesso rimasta immutata dai giorni dell' infanzia, e nel contempo uguaglia tutti, rendendoli anche solidali fra loro, fedelmente attaccati a questo unico e composto margine di terra che ogni tanto, con la bora appunto, dichiara la sua assolutezza e la sua irripetibilità». - PAOLO RUMIZ

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